ENNIO FINZI: Ennio Finzi e gli spazialisti
A cura di Giovanni Granzotto
Verso l'Arte Edizioni, Roma 2005
Testi di: Giovanna Barbero, Giovanni Granzotto, Dino Marangon, Lella Mazzoli, Ennio Pouchard
Catalogo presentato in occasione della mostra a Palazzo Ducale di Urbino
4 agosto - 28 agosto 2005
La mostra “Ennio Finzi e gli Spazialisti”, a Palazzo Ducale di Urbino, costituisce un’ulteriore momento di riflessione e approfondimento sulla complessità del lavoro dell’artista, “delle sue avventure, delle sue conquiste, delle sue scoperte, ma anche del suo incontro con se stesso” . Con l’eccezione di Giovanna Barbero e Ennio Pouchard, i testi-intervista di Marangon e Granzotto, riflettono infatti la volontà di uscire dall’esegesi critica e così “costringere” l’artista, attraverso il filo libero del dialogo, a riflettere sui temi della propria pittura. Uno dei temi affrontati è per esempio la perdita del centro (il riferimento è al famoso libro di Hans Sedlmayr), se Kandinsky mantiene ancora il centro - dirà Marangon - Finzi quel centro lo ha “sicuramente” perso.
“[…] il mio lavoro, ancora oggi gioca sui bordi, sulla lateralità. Cosa vuol dire? Che la perdita del centro come immagine del quadro è la perdita della sostanza centrale del pensiero della pittura. […] Cerchiamo di capire un attimo cosa intendo dire. Perché il problema dell’atonalità, la musica, Schönberg è stato quello che mi ha impressionato nel corso degli anni cinquanta? Perché se Vedova è stato quello che mi ha scardinato, quello che mi ha sconvolto, mi ha fatto scrivere da destra verso sinistra, mi ha rovesciato i termini, Kandinsky non mi aveva ancora rovesciato i termini. Kandinsky mi aveva fatto capire che si poteva fare della pittura al di là dell’immagine figurativa. Ma Kandinsky mi teneva sempre ancora all’interno dell’ordine: cioè la scrittura andava ancora da sinistra verso destra. Lo scardinamento di Vedova e lo scardinamento globale di quello che è stata la dodecafonia è ciò che mi ha fatto scoprire dei valori che prima non erano ancora modificati, perché se la pittura era fino ad allora, giocata sul pensiero unitario, Schönberg tentava di farmi entrare in un disordine totale. Per cui non c’era più un progetto di andata e non c’era più un progetto di ritorno. Ma c’era quasi il tentativo di scontrare queste due condizioni. […] E allora quel bel pensiero della pittura quale poteva essere quello di Gino Morandis, o quello di Bacci, di cui mi pare si possa dire che si tratti di un bel pensiero unitario, un pensiero corretto, un pensiero contemplato all’interno della codificazione del giusto pensare, questo bel pensiero, per varie ragioni, mi è stato messo in crisi già alla fine degli anni quaranta. Per cui la mia ricerca è sempre stata all’interno di una condizione scorretta.