MILANO - Galleria Apollinaire

Giugno 1958

Testo di Giuseppe Marchiori

Il giovane Ennio Finzi ha dietro di sé una tale somma di prove e di affermazioni che bastano a far capire la insoddisfatta curiosità del suo spirito, la proteiforme ricerca di un domani, in cui egli per primo si meraviglierà di riconoscere se stesso.
I colori obbediscono alle leggi antiche delle simpatie e dei contrasti; ma soltanto per vivere nella luce di un attimo, nella verità di una intuizione subito distrutta dal suo contrario.
La natura non è più contemplata con un abbandono romantico: torna a farsi immaginare attraverso la conoscenza scientifica, in una tessitura esatta, quasi meccanica, come nei diagrammi tracciati dalla punta di uno strumento estremamente sensibile.
I fondi opachi, di una tinta unita, rappresentano un vuoto illimitato dal quale emergono forme incandescenti, spettri luminosi, vibrazioni elettriche, al di là di ogni convenzione figurativa.
La polemica di Finzi, se è lecito usar questa parola, non è rivolta contro obiettivi determinati: è piuttosto un’azione stimolatrice provocata dall’intelligenza, quando il pittore si accorge d’insistere sul risultato acquisito.
La discontinuità dell’esperienza riproduce il moto assurdo della vita del cosmo. Questa è l’unica giustificazione possibile alla rottura dell’effimero equilibrio di ieri.
Infatti all’ordine meccanico degli effetti spettroscopici, Finzi, nelle più recenti pitture, oppone l’azzardo di nuclei informi lanciati secondo traiettorie previste sui piani gialli o rossi, di un valore che tocca l’intensità delle vivide combustioni.
Sono le meteore-simboli dell’instabilità, come condizione di uno spirito, che crede soltanto ai propri dubbi e che attende sempre la conquista di una meravigliosa scoperta per poterla immediatamente distruggere e per tornare così al rischio del rifiuto delle verità pittoriche raggiunte e definite.