ROMA - Galleria Schneider

Roma 22 gennaio - 6 febbraio 1957

Testo di Virgilio Guidi

Mi propongo dire alcune cose molto semplici su questo giovane pittore, sperando di pigliarlo a verso: il che significa non dire cose inutili. Corre il giudizio che la pittura del Finzi sia antipittura e che egli stesso sia l’antipittura in persona. Vero è che qualche volta egli si esprime in modo strabiliante per chi prenda le parole alla lettera; gli avviene nei rari momenti di svagate apprensioni dire per esempio: “io non credo alla pittura!”, o così o con altre parole esprime lo stesso malessere. Ho il sospetto che questo malessere sia una grande nausea: deve essere preso il Finzi da tale nausea per la strabiliante (questa volta sì!) fioritura di pratici talenti, di ambigua ricchezza, che producono pittura, di fronte alla quale egli pone “l’antipittura”, come si dice e io l’ho inteso dire da “critici nuovi”.
Forse il Finzi apparirà di una nudità estrema, sconcertante, anche a chi, almeno per cultura, dovrebbe vincere ogni scossa con il giudizio, ma temo che questa cultura sia troppo preziosa e troppo storicamente fissata, in una molteplicità assurda di espressioni dove il superfluo, dagli infiniti volti, giuoca protagonista. Io non so capire, ad esempio, come un critico colto ed acuto potesse sostenere, giorni fa, con tanta convinzione le opere di un giovane, preziosamente e fantasiosamente elaborate, ma ornamentali e minute quanto mai, nelle quali egli stesso vedeva una certa cineseria. Nell’arte rinascimentale nessuno confonderebbe oggi un orafo-pittore con un altro di piena potenza espressiva adoperante le leggi essenziali dell’arte; leggi che portate a nuova esistenza sono sempre le medesime: oppure negandole addirittura, repugna ugualmente allo spirito l’intrusione di fatti impuri, di sapienze, di accorgimenti di ordine minore e divertente, non trovanti mai un po’ di lume spaziale, né un linguaggio. Comunque sia, la pittura del Finzi con tutto questo non ha nulla a che fare.
Dopo la lezione di Mondrian, pur non fissandoci su lui, ben altro doveva essere l’impegno. Per altre che siano le nostre esigenze; per altra che sia la direzione delle nostre linee, la spinta verso un nuovo mondo, mai dovevasi giungere a tanto tenero confuso, senza mai, o rarissimamente, la grazia della semplicità o la cara “nudità della coscienza”.
E il chiaro e splendente vedere.
Nonostante l’immediata apparenza non diamo alla svelta e del tutto, le pitture del Finzi, all’“irrazionalità” oggi alla moda, perché in ogni sua tavola si riversa molto più l’avventura infrenabile dello spirito che della immaginazione. […]
L’“indeterminatezza” delle tavole del Finzi, quel vuoto che tanti vi scorgono, è, forse, una possibile determinazione; che se in esse vi fosse qualche riferimento ai fenomeni spaziali della materia, veramente materiale e così comuni, una espressione sarebbe, si, più determinata per impressionare una società evoluta alla meglio.
Una pittura del Finzi è semplice e vasta e senza confini. Presa tra le maggiori o le minori ha sempre in sé, motore unico, una grande ansietà d’apertura. E qui è, forse, il volto vitale del tempo che di determinato può avere solo questa ansia in gara di velocità con il tempo.
L’ansia è una azione dello spirito, e da questa azione, una forma, qualunque essa sia, non sarà mai il prodotto di un autore o di una società di autori, o di circoli estetici, ma il prodotto di un uomo, Il colore protagonista evidente ritrova, nella pittura del Finzi, una nuova armonia dopo aver negata ogni armonia scolastica e, mai è, quella fisicità cromatica urtante da ribelli ignoranti.
La sua elaborazione che qualche volta appare precipitosa è, forse, per evitare l’incastro nell’artificio. Altro malanno questo che toglie alla volontà e dà al caso il risultato. Infatti vedi spesso e ovunque opere che potrebbero essere rimosse qua e là senza pregiudizio alcuno. Quelle del Finzi, sono quelle che sono, e se anche in apparenza immediate, non si possono rimuovere.