Sono nato il 16 marzo del 1931 a Venezia, città che ho amato profondamente. Il giorno che nacqui nevicava e mi piace associare questo fatto alla mia passione per il tempo grigio, nebbioso, e la paura, addirittura il panico, per le giornate di cielo azzurro. Ricordo quanto mi piaceva girare per la città nei giorni di grigiore, soprattutto d’inverno quando la nebbia ovattava per magia i lineamenti delle case, dei palazzi, dei canali e il bacino di San Marco diventava uno scenario meraviglioso. Il labirintico tessuto di calli, campielli, fondamenta, era pieno di piccoli negozi artigianali o commerciali e tutto si svolgeva in un impasto armonico di domande e offerte con quel vociare dialettale ora del tutto o quasi scomparso.

Abitavamo in campo San Giacomo dall’Orio, in un appartamento abbastanza grande al primo piano, molto bello non tanto per l’arredamento che era sobrio, quanto per l’altezza del soffitto per l’aria e la luce. Alle pareti erano appesi quadri dipinti da mio padre che non era affatto pittore ma un autodidatta e un dilettante straordinariamente dotato e sensibile. Amava fare delle copie da quadri di pittori impressionisti: Degas, Renoir, Monet, Cezanne, Van Gogh, Toulouse Lautrec e poi Modigliani e altri. Aveva comperato dei libri editi dal Milione di Milano negli anni trenta del Novecento, le cui riproduzioni a colori erano eccellenti e sulle quali lui si esercitava. Nel tempo e in tutte le vicissitudini della vita, cambiamenti, spostamenti, tante di queste sue opere sono andate disperse, eccetto una copia di Toulouse Lautrec che conservo con gelosia e amore.
A 11 anni si iscrive all’Istituto d’Arte nella sezione di Decorazione pittorica senza conseguire il relativo diploma. Finzi ricorda come a quel tempo, grazie ai libri di suo padre, conoscesse “già la pittura di Casorati, di Carrà di Morandi, De Chirico, Sironi, Scipione”; confessando inoltre di sentirsi “più avanti rispetto ai maestri che mi insegnavano, perciò, a scuola facevo quello che dicevano, ma a casa facevo quello che volevo e piaceva a me”.
Nel corso degli anni di guerra - che egli visse “protetto dall’incoscienza dell’età” – giovanissimo cominciò col frequentare lo studio dell’artista Ferruccio Bortoluzzi:
In tempo di guerra, mio padre, che era antifascista con in più un cognome ebreo, più di qualche volta dovette nascondersi per timore di retate. Ad ospitarlo era Ferruccio Bortoluzzi, pittore e scultore bravo, di grande qualità ma di scarsa penetrabilità commerciale. Fu lui in qualche modo il mio primo maestro, mi faceva fare i primi acquerelli, mi faceva copiare qualche bottiglia, qualche vaso e mi diceva: “Ennio, avanti, dipingi come puoi e come senti”. Ricordo delle cose fatte in un clima scipionesco intenso, emotivamente sature, facevo delle figure massicce, pesanti, con intonazioni rosse accese. Guardando la pittura del Novecento avevo capito che la poetica poteva andare oltre quello che era lo sguardo oggettivo.

Natura morta, 1948, olio su tela, 42x55 cm - Nudo (Figura), 1948, olio su tela 70x50
Nel 1948 la riapertura della Biennale e la consacrazione ufficiale del Fronte Nuovo delle Arti avevano suscitato un interesse straordinario tra le giovani generazioni di artisti. Finzi entra in contatto con i protagonisti veneziani del Fronte e in particolare con Emilio Vedova che lo chiama a collaborare nel suo studio:
Quella con Emilio Vedova fu certamente una conoscenza e poi collaborazione straordinaria. Quando insieme si andava in giro per la città, ero orgoglioso di mostrarmi con lui che era già una figura carismatica: lungo, magrissimo, con una barba folta allora tutta nera. A quel tempo faceva una pittura ancora geometrica sul bianco e nero che da un certo cubismo confluiva immediatamente ad un futurismo alla Balla, però con tutta la sua personale frenesia gestuale. In questo clima elettrico anch’io lavoravo naturalmente sotto il suo influsso, sul gesto, sul segno, sullo scontro, insomma sull’urto: lui era dotato di una personalità dirompente, pirotecnica, straordinariamente forte: standogli vicino era assolutamente impossibile non rimanerne imbrigliati.
Dal 1949 frequenta all’Accademia di Belle Arti di Venezia il corso di Scuola libera del Nudo, tenuto da Armando Pizzinato e contemporaneamente studia violino col proposito, poi non mantenuto, di sostenere l’esame di diploma al Conservatorio di Musica “Benedetto. Marcello”. Inizia nello stesso periodo a frequentare le iniziative musicali della Biennale Musica e i concerti alla Fenice, dove ha modo di conoscere il compositore Bruno Maderna che lo interesserà alle nuove tendenze della musica contemporanea:
A Venezia c’era il festival della Musica e fuori del teatro qualcuno ci forniva i biglietti del loggione perché facessimo la claque. Si ascoltavano solo allora le prime musiche sperimentali, la musica espressionista e la musica dodecafonica di Schönberg. Erano rarissimi concerti che venivano solitamente fischiati dal pubblico. Addirittura le esibizioni venivano interrotte per le invettive provenienti dal loggione dove eravamo noi. Ricordo ancora delle audizioni memorabili durante il periodo del festival della Musica della Biennale a San Fantin, nell’Ateneo Veneto, serate in cui c’era Nono, certamente il più grande dopo Schönberg - che io ho avuto la fortuna di conoscere – o Maderna, altro straordinario musicista sperimentale.
Le prime opere esposte alle collettive della Fondazione Bevilacqua La Masa, documentabili nei cataloghi delle edizioni che vanno dal 1948 al 1950 , largamente caratterizzate da un generico assorbimento di modelli neocubisti o espressionisti, vengono presto superate da una sempre più solida conoscenza delle opere di Mondrian e dalla verifica ravvicinata di quelle di Kandinsky durante le Biennali del 1948 e 1950: “Credo di aver scelto la strada dell’invenzione immaginativa di Kandinsky - avrebbe poi riconosciuto - più che quella del rigore metodologico di Mondrian, le due polarità estreme, per me, di una astrazione sia concettuale che percettiva”.
(in basso, con Saverio Rampin davanti ad un’opera di Kandinsky, Biennale di Venezia, anni '50)




Il precoce passaggio verso l’arte astratta viene inoltre favorito, oltre che dalla frequentazione di Emilio Vedova, dalla conoscenza di Atanasio Soldati, “venuto ad insegnare alla Scuola d’Arte e quasi del tutto trascurato dall’ambiente locale”. Le sollecitazioni culturali che gli provenivano poi dall’ambiente intellettuale di Deluigi e Guidi, favorirono, sotto la spinta della musica dodecafonica e del ritmo sincopato del Jazz, una radicalità di pensiero e di azione completamente nuove, che egli spiega in questi termini:
Quando mettevo un rosso nella tela, non m’interessava usare una gamma di rossi che fossero in relazione alla nota dominante, mettevo giù un rosso, un nero e li pensavo fine a sé stessi. Ma la pittura che conoscevo a Venezia, o anche ovviamente attraverso i libri, non mi dava la possibilità di capire questa possibilità. Per cui sono entrato nel pieno della musica atonale e tutto il mio lavoro degli anni cinquanta era dissonante, cercavo la dissonanza non solo nella forma ma anche nel colore, stonavo volutamente e per questo dicevano: “eh ma che coloracci!”. Non capivano che per me l’aspetto teorico era di estrema importanza.

Venezia, Galleria del Cavallino, 1950-51. Con Ettore Sottsass e Emilio Vedova.