Nell’agosto del 1952, dichiarando come da statuto, di trovarsi in “condizioni economiche disagiate e personalmente disoccupato”, Finzi inoltra all’Opera Bevilacqua La Masa di Venezia richiesta di uno studio che gli verrà concesso soltanto a partire dal 24 aprile del 1954. Nel frattempo è invitato dalla Galleria Numero di Fiamma Vigo a Firenze alla mostra “16 artisti veneziani”.
Sono “anni meravigliosi, pieni di effervescenza culturale e operativa” quelli dello studio a Palazzo Carminati, del cui passaggio abbiamo una fotografia pubblicata sul “Gazzettino-Sera”, a corredo di un articolo della giornalista e pittrice istriana Nora Orioli.

Cesco Magnolato, Renato Borsato, Ennio Finzi e Riccardo Schweizer, all’interno dello studio di quest’ultimo, Venezia, 1955
Non chiede che di poter lavorare tranquillo e poter tradurre il più gran numero di emozioni in colore. La musica interviene, è vero, nella sua vita, ma come meditazione, trattandosi di dissonanze dodecafoniche, che predilige, o come atmosfera esasperante creata dallo Jazz di Stan Kenton. La musica e la pittura si fondono nella sua vita; mi racconta del suo primo violinetto e dei suoi primi tentativi di far star vicini due colori sulla tela, come di due modi ugualmente suoi di essere.
Nora Orioli
Il grande assoluto silenzio e poi l’ossessiva musica negra creano in lui le tensioni creative. Inutile distrarlo con domande attinenti alla vita di fuori. È molto se si accorge se piove o se fa sole. Che piova o no, infila gli occhiali cerchiati di nero e il Mongomery blu e se ne viene qui su, a Palazzo Carminati, a fare lui il sole e la pioggia come li vede lui, e non importa se la pioggia verrà fuori lilla ed il sole verrà fuori nero; e non importa se siano poi sole e pioggia.
Il relativo sollievo conseguito dall’aver conquistato per meriti artistici uno spazio in cui isolarsi determina la possibilità di lavorare per molti anni indisturbato. Avendo inoltre raggiunto un accordo di esclusiva con l’imprenditore Attilio Arduni, che prevede la consegna mensile di circa una decina di opere dipinte su faesite (“ebbi le invidie di Tancredi - al quale comunque Arduini comperava dei quadri - di Bacci, di Morandis, e di tutti quelli che appartenevano alla generazione precedente la mia”), Finzi, stabilitosi economicamente, decide di ridurre gli impegni espositivi. Nel 1954 lo si registra infatti in sole due occasioni: nelle mostre itineranti (Venezia, Milano, Caracas) del “Premio Graziano 1953”, e alla quarantaduesima Collettiva Bevilacqua con l’opera “K88”.

Nel magazzino di Attilio Arduini, Venezia, 1955
Nello studio di Palazzo Carminati, Venezia, 1955
Successivamente – sollecitato anche da Arduni - l’artista riprende l’attività espositiva a pieno regime, in particolare all’interno del contesto spazialista in cui si muove la galleria del Cavallino. Nell’aprile del 1956 viene inserito da Carlo Cardazzo in una mostra in cui sono presenti i firmatari veneziani del movimento fondato da Lucio Fontana: Deluigi, Bacci, Morandi, Tancredi e De Toffoli, a cui si aggiungono Rampin, Matta e Capogrossi.
Il gallerista darà poi seguito a quell’esperienza, allargando la rosa dei nomi a Beer, Burri, Duncan, Jorn, Martin, Scanavino, Vianello e confermando quelli di Bacci, Deluigi, Morandi, Tancredi e Finzi in una mostra dal titolo: “Spazialismo nel mondo”. La partecipazione al “Premio Graziano 1956”, curato sempre da Cardazzo con le esposizioni al Naviglio e poi al Cavallino, lo convince nel perseguire il tema della sua pittura all’interno della “Timbrica jazz”.
Felice e intonatissimo nella immediatezza evocatrice il Giallo-nero di Finzi, la cosa più alta forse, più libera, forte e legata al tema, di tutta la mostra. Chiuso nello spazio e aperto nel moto e contemporaneamente fermo e illimitato, raggiunge un canto sicuro evocativo preciso come pochi, nell’ordine parallelo di forme astrattistico spaziali. Ha più vita e semplicità di Morandi che ha toni assai forti, di Vianello chiuso nella sigla, di Licata pur sempre elegante e nuovo con il suo “fiore” che spicca.
Il Gazzettino
Avviata sul finire del 1955 e largamente verificata lungo il corso dei due anni successivi, è stato poi la serie di opere denominate retroattivamente “Dimensione cosmica” o “Esplosione”, in origine codificata con la sola iniziale K a cui seguivano dei numeri a doppia e tripla cifra sul modello dei titoli annoverati per i cataloghi musicali, o forse in riferimento alla numerazione proposta da Carlo Belli nel libro “Kn”, che Finzi conosceva.
L’azione pittorica si produceva come atto simbolico di un’esplosione (“c’era dentro il sentimento tragico della bomba atomica”, avrebbe riconosciuto in seguito) così che il colore, gettato dirimpetto al quadro, propagava le sue forme attraverso schizzi e sgocciolature.
Giuseppe Mazzariol, ebbe in seguito a riconoscere che la pittura di Finzi “non è mai stata usuale”, incentrata com’era “su una ricerca con anticipi peraltro talvolta perfino incomprensibili” e che “imponeva un tipo di intelligenza critica di elezione”. Il fatto poi che la Biennale Internazionale d’Arti visive non l’avesse “debitamente evidenziato nelle stagioni in cui doveva” - ripagandolo in parte con l’intempestivo invito del 1986 (proprio con un quadro degli anni cinquanta) – significava, per lo storico dell’arte veneziano, doversi porre quanto meno un interrogativo.
Nel 1956 espone con una personale nelle sale della Fondazione Bevilacqua La Masa. Nel testo di presentazione Toni Toniato mette in luce come, “malgrado la giovane età, già da anni l’avventura di Finzi” continuasse “nella pittura con una audacia e una invenzione inesauribili”, e che ciò l’avesse portato “talvolta a lavorare al di là dei limiti sessi della pittura”. Le “insolite ricerche” di Finzi offrivano “nondimeno una verità avvincente, piena di magia e di vita. È questo un segno di autenticità che la sua natura arriva a rivelarci nei suoi tanti modi di manifestare, perché per Finzi ogni momento è storia, ogni cellula un mondo. Si potrebbe dire che la pittura di Finzi è in fondo una conquista oltre i termini spaziali e temporali della forma come dell’evento”.

Nel gennaio del 1957 espone a Roma da Robert Edward Schneider (“ricordo che fu un fiasco, nel senso che non successe assolutamente nulla. Fui però gratificato di avere la visita in galleria di Argan e di Palma Bucarelli”) - gallerista che proponeva gli altrettanto giovani Sanfilippo, Dorazio, Perilli e Scialoja. Nel presentarlo, Virgilio Guidi – che aveva definito Finzi l’antipittura in persona - sottolineava come la sua pittura fosse “semplice e vasta e senza confini” avendo egli “una grande ansietà di apertura”, ed essendo “in gara di velocità con il tempo”.


Nel dicembre del 1957 esce su Evento un lungo saggio sul lavoro di Finzi firmato da Toni Toniato. Le immagini pubblicate accanto al testo fanno parte di un ciclo che l’artista realizza in due tempi diversi, a partire forse dal 1954. Si tratta di opere nelle quali il segno ha la funzione di agire sulla superficie del quadro come un oscillografo, in grado di registrare il diagramma temporale di una vibrazione, “costante necessità – scrive Toniato, di coinvolgere nella materia espressa l'atto della sua struttura luminosa, la sua intensità o estesità vitale, elettronica nello spazio. È una opera, che si affida unicamente alla qualità più precaria, esistenzialmente più partecipe, al timbro, che del colore avverte le modalità interne e generative”.
Dopo le mostre alla Schneider di Roma, il Circolo di Cultura di Bologna, la Numero di Firenze e la Santo Stefano di Venezia, il 1957 si chiude con l’assegnazione del primo premio ex-aequo per la pittura alla XLV Mostra Collettiva Bevilacqua La Masa, raccogliendo il consenso pressoché unanime della giuria, presieduta da Diego Valeri e composta tra gli altri da Guidi, Viani e Saetti. Nel complesso Finzi emergeva come “un pittore di levatura superiore per la ricerca originale che persegue”, avendo egli “raggiunto una autentica e personale visione plastica”.
Il 1958 è un anno che vede impegnato l’artista, oltre che sul fronte dei numerosi premi nazionali (su tutti il Premio Viterbo e il Taccuino delle Arti di Firenze), in due esposizioni personali di particolare rilievo: in giugno alla Apollinaire di Milano, presentato da Giuseppe Marchiori; in agosto alla Bevilacqua, introdotto da Umbro Apollonio che Finzi conosceva per aver frequentato fin dal 1949 l'Archivio Storico d'arte contemporanea della Biennale di Venezia di cui Apollonio era conservatore.

Alla galleria di Guido Le Noci, che Buzzatti considerava il “covo dell’avanguardia più oltranzista, la sala più polemica d’Italia, dove passano i fenomeni viventi, i pazzi, gli anarchici, i frenetici dell’avanscoperta”, e che soltanto l’anno prima ospitava i celebri monocromi di Yves Klein, destinò i lavori più recenti, frutto della continua incessante elaborazione spettrografica del colore e della luce in sequenze di ritmi vibrazione dagli “effetti spettroscopici” assieme alle inedite tracce, “lanciate secondo traiettorie previste sui piani gialli o rossi”, da Marchiori definite “meteore-simboli dell’instabilità”. In merito alla mostra Finzi ricorderà la “grande soddisfazione” dell’interessamento per il suo lavoro da parte di Lucio Fontana.

Mostra personale (condivisa con lo scultore Giorgio Zennaro) alla Bevilacqua La Masa, Venezia, 1958
Umbro Apollonio, che inseriva il lavoro di Finzi “nella cerchia della più inquieta creatività contemporanea”, osservava, nella mostra da lui presentata alla Galleria della Bevilacqua La Masa nell’estate del 1958, come il suo “itinerario, compiuto con appassionato impegno, quasi in uno scontroso isolamento e sempre sostenuto da precise ragioni di esigenza espressiva”, facesse convinti del fatto che Finzi potesse “giustamente aspirare ad aprirsi una strada fortunata nella travagliata stagione dello sperimentalismo creativo contemporaneo”.
Nei ricordi di Giorgio Nonveiller quella mostra fu “una delle poche belle mostre tenutesi nelle sale della Galleria Bevilacqua la Masa nel 1958, in dissonanza con le altre esposizioni ma in sintonia con le sperimentazioni artistiche più avanzate”. A suo tempo, invece, Nicola Dessy dalle colonne di “Minosse”, considerava “la forte genialità” e “il fecondo temperamento di questo giovane artista”, “audace, spregiudicato ed entusiasta”, il quale “tutto preso dalla sua pittura e dalla sua esperienza, si è ora buttato con la forza dei suoi ventisette anni su una strada della quale, nel prossimo futuro, potremo giudicare la profondità di questa su fede e convinzione”.

Mostra personale alla Bevilacqua La Masa, Venezia, 1958
Pur non essendo annoverato tra i firmatari dello spazialismo, movimento che aveva assunto tra l’altro sempre più estesi e indefiniti contorni, Finzi viene ancora una volta incluso da Cardazzo all’interno di quel gruppo in procinto di prendere parte alla imminente Biennale e rappresentato dai lavori di Bacci, Fontana, Morandi, Dova, Scanavino, Tancredi e Capogrossi, a cui si aggiungevano quelli di Beer, Bischoffshausen, Jorn, Piqueras, Rotella, Sanfilippo e Savelli, in una mostra dal titolo “Nuove tendenze”.
Nel frattempo l’esperienza delle Collettive alla Bevilacqua giunge al termine con l’ultima partecipazione a cavallo tra il dicembre del 1958 e il gennaio del 1959, sancita nell’estate del 1959 con la “Mostra degli artisti premiati dal 1952 al 1959”.
Con Tancredi e Rampin prende nel frattempo parte ad una singolare iniziativa alla Galleria Santo Stefano, sotto l’egida di Virgilio Guidi. Si tratta di una mostra dove i tre giovani artisti veneziani vengono accostati ad altrettanti coetanei bolognesi, Frasnedi, Mascalchi e Renato Barilli, la cui pratica pittorica fu presto abbandonata a favore della teoria e della critica d’arte.
Nel mese di aprile del 1959 Silvio Branzi, dopo quella per Tancredi, dedica sul Gazzettino una “scheda” al lavoro di Finzi; un ampio articolo attraverso il quale il giornalista e critico trentino osserva dapprincipio come pochi s’erano accorti che Finzi travalicasse, “non solo le formule tradizionali”, andando “al di là dei limiti stessi segnati alla pittura”, ma che anche nell’ambito della “tematica astratta” egli risultasse estraneo “a certi modi che da anni caratterizzano una cifra divenuta ormai di comune normalità”.

Partecipa su invito alla VIII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma del 1959-’60 con tre opere dal titolo evocativo “Cemento” che stabiliscono simbolicamente una cesura con il decennio degli anni cinquanta. Al contempo la sua ricerca pittorica si sospinge ai limiti della rarefazione del colore tramite l’utilizzo dell’aerografo a bocca: si tratta di superfici monocrome da cui emergono sottili alterazioni tonali (“Giallo su giallo”, “Rosso su rosso”, “Grigio su grigio”, ecc.) sviluppate a partire dal 1959. Riprende pertanto il filo delle precedenti scale cromatiche e delle “analisi spettrografiche”, collocandosi pionieristicamente all'interno delle ricerche gestaltiche della teoria della forma e della espansività ottico-dinamica della luce.